Disagio emotivo: in forte e costante aumento nei giovani

Secondo i dati della Società Italiana di Pediatria, otto ragazzi su dieci tra i 14 e i 18 anni hanno sperimentato forme più o meno gravi di disagio emotivo, che nel 15% dei casi è sfociato in gesti di autolesionismo. Dati che segnalano in modo inequivocabile che i giovani, vittime della società di oggi, sono sempre più infelici e senza un chiaro posto nel mondo. La pandemia da Coronavirus e la Didattica a Distanza, che in alcuni casi ha acuito alcune dinamiche familiari disfunzionali, non ha di certo aiutato.

Per fortuna esistono servizi pubblici, ma soprattutto cooperative sociali, che affiancano questi ragazzi più sensibili e li accompagnano a superare con successo i periodi difficili della loro vita. Centro Train de Vie Onlus è una di queste e, sotto il coordinamento e la guida di Elena Nobile, responsabile dei Servizi Educativi Domiciliari, sostiene decine di ragazzi nel padovano.

Oggi, sulle nostre pagine, inizia un appuntamento mensile che ci accompagna a vivere in prima persona il disagio giovanile. La Nobile, con i suoi racconti romanzati di vita quotidiana di un educatore domiciliare, ci trasmette la sua sfida – e quella dei suoi educatori – nel sostenere i “suoi” ragazzi ma soprattutto ci aiuta a comprendere come possiamo realmente aiutare i giovani d’oggi.

Matteo Ercolin


Oggi da Marco è stata davvero dura. Approfitto di questo spazio per mettere ordine e capire se e in cosa io possa aver “sbagliato” con il ragazzo.

Prima di arrivare a casa per il nostro consueto appuntamento del mercoledì, mi telefona la madre per avvisarmi che l’avrei trovato molto nervoso, più del solito. Questo a causa di un episodio successo a scuola, ma che poi ha avuto dei riverberi anche a casa.

Marco è un ragazzo che fa molta fatica a trovare il suo posto nel mondo, ad entrare in relazione con l’altro, soprattutto con i suoi pari. E anzi, è convinto che l’unico modo per farsi accettare dai coetanei, sia quello di farli ridere. Il che potrebbe essere anche una buona via. Il problema è che gli altri non ridono con lui, ma di lui.

Solitamente cerca di far ridere attraverso versi, balletti, battute e, quando nota il sorriso divertito di chi lo sta ascoltando è felice. Quando invece non viene compreso, ci sta malissimo. A volte reagisce anche con comportamenti non adeguati. Oggi a scuola è successo proprio questo. Durante una lezione, probabilmente per lui un po noiosa, ha iniziato a fare “i versi” alla professoressa. Quest’ultima, che conosce bene la storia di Marco ed è in contatto con tutte le figure professionali che hanno cura di lui – neuropsichiatra, psicoterapeuta, assistente sociale e il sottoscritto – inizialmente ha lasciato correre.

A volte i suoi versi non sono prese in giro, ma solo un suo bisogno di attirare l’attenzione. Tuttavia, stamane, questi versi si sono prolungati per troppo tempo e la professoressa è intervenuta: “Per favore Marco, ora basta. Sto spiegando una cosa importante e sei pregato di prestare attenzione, come stanno facendo tutti i tuoi compagni”.

In effetti, stranamente, l’intera classe, e non si può dire che sia una “classe modello”, non aveva accolto in alcun modo i versi del ragazzo. É bastato sentirsi riprendere così dall’insegnante e vedere che nessuno diceva o faceva qualcosa per mettersi dalla sua parte, che il ragazzo si è arrabbiato, ha dato dei pugni sul banco ed è uscito dalla classe. Senza ripercorrere tutto ciò che è conseguito a questo gesto, il risultato finale è stato un richiamo da parte del dirigente scolastico con nota sul libretto.

La madre mi avvisa di tutto questo e mi chiede di aiutarla a far ragionare Marco sulle conseguenze delle proprie azioni. Sul fatto che la sua reazione è stata eccessiva e che la nota è uno degli strumenti che la scuola ha per mettere dei limiti. Dei limiti nei comportamenti che a volte servono, anche a lui. Lei, la madre, ha provato a spiegarlo al figlio, ma il risultato è stato che Marco ha lasciato il pranzo sul tavolo e, urlando, si è chiuso in camera e non vuole vedere ne sentire nessuno.

Durante il tragitto in macchina mi concentro su quanto mi è stato comunicato e su come pormi con il ragazzo. Anche se descritto così può sembrare un tipico atteggiamento adolescenziale semplicemente da educare, sento che dovrò lavorare di fioretto. Infatti la situazione è delicata perché, oltre alla particolare struttura di personalità di Marco, devo tenere bene a mente che è cresciuto senza una figura maschile di riferimento.

Il padre ha usato spesso la violenza, soprattutto nei confronti della madre. É stato più volte allontanato da casa, attualmente vive in un altro comune e non può avvicinarsi ai figli. Queste vicende rappresentano per Marco un passato traumatico che popola tutt’ora, nel presente, la sua storia di vita. A tal punto che in uno dei nostri primi incontri, durante una piacevole chiacchierata sul suo “anime”, improvvisamente mi disse: “Carlo, entriamo in quel negozio. Devo comprare un coltello per difendermi da mio fratello”. Rimasi stupito. Eravamo all’inizio della nostra relazione. Per fortuna quel giorno era senza soldi e quindi fu facile tergiversare e tornare al suo “Anime”.

Successivamente parlai con la madre e mi resi conto che, in effetti, in famiglia mancava il dialogo, soprattutto tra i fratelli. Ma, elemento più grave, è che Marco viveva degli aspetti persecutori nei confronti di Luca, il fratello maggiore di qualche anno. Inoltre, se Marco non viene “preso per il verso giusto” ci mette un attimo ad escluderti e a tagliarti fuori dalla sua vita. Credo di essere il quarto o quinto educatore che cerca di creare una relazione significativa con lui.

Dunque oggi dovrò essere in grado di fargli comprendere il senso del limite posto, ma senza essere vissuto come l’ennesimo adulto che si pone contro di lui (questo solitamente è ciò che avverte quando gli vengono posti i limiti).

Entro finalmente in casa. Non serenissimo, lo ammetto. Con Marco si ha sempre un po come la sensazione che al primo passo falso sei out. Decido quindi di iniziare in maniera soft e, trovandolo seduto apparentemente sereno sul divano, dopo averlo salutato, gli chiedo del suo “anime”. Si perché, come dicevo prima, siccome fa fatica a trovare un suo posto nel mondo, se n’è creato uno tutto suo nel quale si rifugia quando non si sente accettato. Questa è sicuramente una di quelle situazioni e quindi iniziamo parlando dell’ anime.

In questa suo “anime” – una storia immaginaria – lui è il protagonista e l’altro personaggio importante è la madre. Questa storia si sviluppa in due mondi: l’universo e l’anti-universo. In quest’ultimo si trova la copia di tutti i personaggi dell’universo, ma resa cattiva. L’elemento significativo è che anche il protagonista ha una sua parte cattiva, che a volte non riesce a controllare: è qualcosa, per lui, di irrazionale, una parte di sé che gli fa pensare/dire o agire “cose brutte”.

Marco, ti va se oggi iniziamo scrivendo un pezzetto nuovo del tuo anime? gli domando “va bene” risponde lui. Parliamo un po della storia. Avverto che Marco butta li situazioni a caso, almeno io le percepisco, come educatore, come tali. Pensieri senza un filo logico. E ci sta. É il suo mondo e io accolgo, senza interpretare, cosi come lui comunica.

Ad un certo punto dicee qua il protagonista si arrabbia e scappa via. “Perché?” intervengo subito io. “Perché” mi risponde Marco “gli altri sono tutti cattivi”. “In che senso? Hanno fatto qualcosa di male?” chiedo “non apprezzano il protagonista” afferma Marco.

Accolgo quanto condiviso con il ragazzo per chiedergli “Ma stai immaginando una situazione come quella di oggi?” Subito s’irrigidisce. “Che cosa sai di oggi? Con chi hai parlato? Mia madre?”. Senza voler tirare in causa la signora, gli chiedo se gli va di pensare insieme quanto accaduto oggi a scuola. Marco non vuole. “Se vuoi parlare di quella prof, allora vai a casa”. “Marco è molto è importante che esaminiamo insieme quanto è successo” gli rispondo. “Se vogliamo che nel nostro mondo ci siano persone buone che ci vogliono bene, dobbiamo imparare a riconoscere le battute e i comportamenti più adeguati alle situazioni. Vedi, se la prof ti ha messo una nota è solo per dirti: “durante le lezioni è meglio che tu non faccia i tuoi versi”. Niente di più. Ti ha voluto mandare un messaggio per insegnarti una piccola regola su come si sta con gli altri”.

“Ecco! Tu sei come tutti! Tu non mi hai capito e non fai altro che rimproverami, come mia madre!” mi urla Marco salendo le scale che lo portano alla sua camera. Sbatte la porta e conclude “va via, sei come tutti gli altri”. Lascio un attimo che sbollisca, tiro un respiro profondo e salgo le scale. Busso alla porta.

“Marco, per favore, aprimi un attimo”. “Ti ho detto di andare via”. Ribadisce il ragazzo. “Ascolta” ci provo ancora “mi spiace se ti sei sentito offeso dalle mie parole. Io credo che tu sia un ragazzo stupendo, ma sei un adolescente e devi imparare ancora alcune cose. Tutto qua”. “Ma insomma….basta…quante volte mi dovete ripetere sempre le stesse cose? Credete che io sia uno scemo?” “No”, rispondo “ma siccome certi comportamenti li riproponi, forse devi ancora imparare quali comportamenti sono adatti alle situazioni che vivi”. “Ti ho detto che ho capito” urla Marco “me l’ha spiegato mia madre. Ora tu!” improvvisamente apre la porta “e guarda che adesso io chiedo a mia madre il numero della cooperativa, chiamo la tua responsabile e ti faccio licenziare”. Con tono fermo, ma freddo e distaccato, gli spiego che anche ciò che ha appena detto è fuori luogo. Che questo non potrà mai succedere. E che se continua così rischia davvero di farsi isolare dagli altri. Son stato un po troppo deciso, ma sentivo che la tensione stava salendo. Gli ho detto di pensarci. Io me ne sarei andato e ci saremmo rivisti il giorno successivo. E così ho fatto.

Però ora sono qua. E ci sto ancora pensando. Non sono tranquillo. Forse avrei potuto fare qualcosa di diverso. In fondo Marco, al di là delle etichette diagnostiche, è un adolescente che vuole essere accettato dagli altri. Così, com’è. Vuole sentire che gli altri provano affetto. Quel sentimento che non ha potuto vivere nei primi anni di vita a causa della continua tensione che si respirava in casa. Mi verrebbe voglia di abbracciarlo. E come mettere in azione questa emozione?

Anche se non dovrei farlo, gli scrivo un messaggio al cellulare: “Caro Marco, mi spiace per oggi. A volte ci possono essere delle incomprensioni. Forse son stato un po ripetitivo, ma sappi che ciò che dico e che faccio è perché ti voglio bene e desidero il meglio per te”. Spedito. Chissà ora….leggerà? Risponderà?

Sì, Marco mi risponde immediatamente: “Quando faccio qualcosa che non va bene è giusto che voi me lo spiegate, ma non ripetetelo mille volte. Una volta spiegato, lo capisco”. “Va bene” rispondo immediatamente “dalla prossima volta ti chiedo di aiutarmi a capire, in modo educato, quando sto esagerando”. Mi sento più leggero.

Credo che quanto accaduto oggi sia davvero importante per la nostra relazione, sia un elemento in più per farla diventare sempre più autentica. Uno spazio in cui poter essere se stessi senza essere giudicati perché Marco ha bisogno di riflettere sulle azioni che compie, ma anche sulle sue capacità latenti. L’auspicio infatti è che questo percorso lo aiuti a trovare le giuste vie per donare ciò che ha dentro: un piccolo tesoretto di diamanti grezzi che han bisogno della giusta incastonatura.

Carlo, un educatore di Centro Train de Vie

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