Adolescenti e suicidio: i segnali da riconoscere, perché parlarne è importante

Un dolore interno, oscuro, difficile da spiegare a familiari e amici. Un’infelicità ed un’insicurezza sul proprio ruolo nel mondo. Situazioni difficili che spesso sfociano in gesti di autolesionismo o azioni ancora più gravi, tentativi di suicidio.

Disagio adolescenziale e suicidio, un tema molto delicato di cui si parla ancora troppo poco. In occasione della Giornata Mondiale per la Prevenzione al Suicidio abbiamo deciso di tornare ad affrontare questo tema per capire meglio come affrontare un giovane che ha provato a togliersi la vita, sia dal punto di vista medico che dal punto di vista educativo.

Vogliamo provare ad illustrare come funziona il processo di guarigione, d’educazione e di supporto per questi ragazzi che hanno compiuto gesti estremi. Un modo per spiegare ai genitori, amici e tutori come affrontare queste situazioni e come riconoscere i segnali di un disagio adolescenziale.

Ci siamo così nuovamente rivolti a Elena Nobile, coordinatrice e responsabile dell’area educativa del Centro Train de Vie Onlus, una cooperativa sociale che accompagna molti ragazzi del padovano in un percorso di educazione e riscoperta per aiutarli ad andare oltre questi periodi bui della loro vita.

Questa volta però siamo riusciti a parlare anche con la Dottoressa Silvia Zanato, medico specialista in neuropsichiatria infantile Dipartimento Salute Donna e Bambino presso l’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dell’Azienda Ospedale-Università di Padova che ci ha offerto un punto di vista medico sul processo d’aiuto ai ragazzi che purtroppo devono essere ricoverati. 

Dr.ssa Zanato, può darci un commento alla recente notizia che le richieste d’aiuto a Telefono Amico sono triplicate rispetto all’anno scorso soprattutto tra donne e giovani tra i 19 e 25 anni. Cosa è cambiato e sta cambiando? 

Il suicidio è un serio problema di salute pubblica globale. Dai dati ISTAT emergeva nel 2016 che il suicidio era la seconda causa di morte negli adolescenti e giovani adulti. I dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenti riferiscono che nel 2017 circa il 6% della popolazione generale italiana in età adolescenziale ha tentato il suicidio.

A livello nazionale c’è stato un incremento significativo nell’ultimo anno con una prevalenza di ricoveri di sesso femminile e un’occupazione fra il 100-150% dei posti letto disponibili per minori con disordini psichici, in prevalenza per tentativi di suicidio, autolesionismo o disturbi del comportamento alimentare. 

Da genitore o da amico come riconosco una situazione di disagio, quali sono i segnali fisici e psicologici, come intervengo? 

Dr.ssa Silvia Zanato

Dr.ssa Zanato: E’ importante per un genitore e per le figure educative porre attenzione ai cambiamenti comportamentali di bambini e ragazzi: un’intensa irritabilità, l’eccessiva chiusura o l’isolamento, non voler partecipare ad attività che prima lo interessavano.

Utile in queste situazioni è cercare di mantenere aperto un canale comunicativo con i ragazzi, dimostrarsi disponibili all’ascolto e se necessario offrire occasioni di aiuto, anche con confronto con un professionista della salute mentale. Si ritiene che modelli familiari positivi e lo sviluppo di buone competenze ed abilità sociali risulta un elemento protettivo per aiutare i ragazzi nei momenti di crisi. 

Un genitore che chiede al proprio figlio/a “hai mai pensato al suicidio” può peggiorare la situazione? 

Dr.ssa Zanato: Questo rappresenta un retaggio culturale, parlare di suicidio non comporta un incremento dei pensieri suicidi. Se dei bambini o ragazzi esprimono pensieri a contenuto suicida è importante offrire aiuto attraverso la possibilità di parlare con un medico, uno psicologo o un operatore della salute mentale. Serve anche una cultura mediatica sul suicidio: vanno evitate notizie sensazionalistiche sul suicidio in generale, soprattutto riferite a personaggi famosi. Le notizie non dovrebbero essere accompagnate da foto o video; altrettanto va evitata la normalizzazione del suicidio. 

Parlare di suicidio non comporta un incremento dei pensieri suicidi. Se un bambino o un ragazzo esprime pensieri a contenuto suicida è importante offrire aiuto attraverso la possibilità di parlare con un medico, uno psicologo o un operatore della salute mentale.

dott.ssa Silvia Zanato

Come si struttura il processo di aiuto ad un ragazzo/a che ha tentato il suicidio? 

Dr.ssa Zanato: Nel caso di un tentativo di suicidio dopo l’accesso in pronto soccorso il ragazzo o la ragazza vengono condotti all’attenzione medica, dove viene eseguita una valutazione specialistica (neuropsichiatrica infantile o psichiatrica) che può suggerire un ricovero. In caso di ricovero il ragazzo/a viene monitorato da un punto di vista internistico, per poi venire accolto nella sua sofferenza per una valutazione psico-diagnostica e per l’avvio di un trattamento farmacologico/psicoterapico. In seguito, viene programmata la presa in carico multidisciplinare necessaria che si svilupperà nel post-dimissione in collaborazione con la rete dei servizi territoriali. 

Elena Nobile

Dr.ssa Nobile: Questa equipe multidisciplinare accompagna il ragazzo/a e la famiglia nel rientro a casa e nella ripresa delle attività quotidiane. Il gruppo è costituito prevalentemente da un neuropsichiatra del territorio, uno o due psicologi e un educatore. Uno o due psicologi in quanto sarebbe importante dare uno spazio di rielaborazione di quanto accaduto non solamente al ragazzo, ma anche ai genitori.

I genitori hanno bisogno di riflettere su quanto accaduto e su come possono stare vicino al figlio/a e aiutarlo/a a ritrovare la propria via. Oltre al percorso psicologico, è fondamentale l’accompagnamento educativo. Di solito proponiamo la presenza di un educatore domiciliare, che va a casa dei ragazzi per aiutarli, nel rispetto dei loro tempi interni, a riprendere in mano la propria vita. Tutto questo può avvenire solo se però prima l’educatore riesce a “connettersi” con il minore e a creare una buona relazione, in cui il minore senta di potersi fidare, affidare e confidare.

Con ragazzi che hanno tentato il suicidio la relazione non è solamente lo strumento principe del lavoro educativo, ma direi il fine stesso, in quanto il tentativo dovrebbe essere quello di far vivere al minore esperienze quotidiane nelle quali far emergere le parti migliori di sé e, in questo modo, aiutarlo a viversi positivamente

Come vivono le famiglie il periodo di ricovero e il periodo di supporto successivo? Vi sono stati casi di famiglie che si “vergognavano” di ricevere aiuto? 

Dr.ssa Zanato: Il momento del ricovero per un genitore è sempre carico di preoccupazioni e speranze. In questo caso il ricovero è appesantito anche da altri fattori: la scarsità di posti letto dedicati alla salute psichica in età evolutiva (non tutte le città e nemmeno tutte le Regioni in Italia hanno posti letto dedicati), la difficoltà di accedere a luoghi di cura dedicati spesso rendono il percorso che porta al ricovero ostico con un conseguente aumento delle sofferenze del minore e della famiglia.

Il ricovero rappresenta un momento in cui i genitori si trovano ad affrontare le difficoltà dei figli e possono entrare in maggiore contatto con la sofferenza dei proprio bambini o ragazzi e con il proprio dolore. Il ricovero può essere visto come un momento di crisi anche per il sistema familiare, ma rappresenta anche l’occasione per avviare un processo di cura e maggiore benessere, per poi riprendere la vita extra ospedaliera con nuova speranza, anche grazie a un progetto di presa in carico che continua nel post-ricovero. 

Dr.ssa Nobile: Per quella che è la nostra esperienza, non vi è un unico modo per vivere questa esperienza traumatica, sia durante il ricovero, che nel rientro a casa. Tuttavia, ripensando alle famiglie incontrate nell’ultimo periodo, ho potuto notare due diverse modalità che hanno caratterizzato il percorso con la nostra cooperativa. Il primo periodo, quello del ricovero, è il momento dell’emergenza, di totale confusione, in cui il genitore s’interroga sul perché del gesto del figlio e non c’è spazio per la vergogna.

Anzi, almeno per quel che riguarda il rapporto con me, di solito i genitori mostrano il loro stato emotivo con momenti di pianto, di silenzi, spesso vogliono essere rassicurati che ci sarà qualcuno a casa con loro nel momento in cui il proprio figlio/a viene dimesso/a. Il primo periodo a casa si affidano molto all’educatore. Di solito accettano tutte le proposte di cura pensate per i ragazzi e per loro. Poi, lentamente, ogni nucleo familiare con i propri tempi, ritorna ad uno stato di “normale quotidianità”: i ragazzi riprendono la scuola, tornano ad uscire con gli amici, magari iniziano anche qualche attività extra-scolastica.

É questo un momento nevralgico nella relazione con le famiglie, in particolare con i genitori. Difatti c’è chi decide d’interrompere il percorso intrapreso perché sente di aver affrontato e superato la tempesta; chi chiede di diminuire le ore dell’educatore a domicilio; chi invece pensa che quel momento rappresenti solamente una nuova partenza e continua a sentire il bisogno di essere accompagnato. 

Dr.ssa Nobile quanto è difficile instaurare un rapporto con le famiglie più complicate per aiutare il ragazzo/a nel processo di supporto? 

In generale, per quel che riguarda il lavoro educativo, una parte molto complessa è proprio quella della relazione con la famiglia, indipendentemente dal tipo di famiglia. Questo perché oggi il ruolo sia del medico che dello psicologo è chiaro, mentre non lo è quello dell’educatore. Non basta un incontro per far capire ai genitori l’importanza della presenza dell’educatore. Quando cerco di spiegarlo, molto spesso mi sento domandare “Ma se si tratta di “fare compagnia” a mio figlio, ad esempio andando a vedere una mostra, perché deve esserci un educatore? Non potrebbe andare con il nonno?”.

Nella maggior parte dei casi ci vuole del tempo perché i genitori si fidino e capiscano il senso dell’azione educativa. E questo aspetto è fondamentale in quanto se non si agganciano i genitori la relazione con i ragazzi è molto più difficile da costruire. C’è bisogno di dar voce alla cultura educativa, di farla conoscere, e di farlo, possibilmente, con chi l’educazione la studia, la pensa e la vive in prima persona. 

Nella maggior parte dei casi ci vuole del tempo perché i genitori si fidino e capiscano il senso dell’azione educativa. C’è bisogno di dar voce alla cultura educativa, di farla conoscere, e di farlo, possibilmente, con chi l’educazione la studia, la pensa e la vive in prima persona. 

dott.ssa Elena Nobile

Il concetto di “prevenzione al suicidio” non esprime a pieno la complessità di questo tema e il modo in cui realmente si affronta. Come cambiereste la definizione? 

Dr.ssa Zanato: Parlare di prevenzione significa garantire il migliore sviluppo psico-emotivo ad ogni bambino/a. Significa lavorare sui fattori di rischio ambientali legati sia al contesto familiare (modelli familiari disfunzionali, psicopatologia presente in un genitore, abuso di sostanze) che al contesto socio-ambientale (scuola, attività extra-scolastiche, servizi). Garantire ai minori una adeguata possibilità di valutazione psicodiagnostica e presa in carico terapeutica sia in ambito territoriale che ospedaliero, significa ridurre lo stigma attorno ai disturbi psichiatrici in età evolutiva. 

Dr.ssa Nobile: Prima di pensare ad un nuovo costrutto da proporre forse è importante spiegare il motivo per cui parlare di prevenzione rispetto al tema del suicidio potrebbe essere riduttivo. Ad esempio ha senso affrontare la prevenzione al tumore ai polmoni, piuttosto che fare prevenzione con i giovani rispetto alle malattie che ci si può trasmettere attraverso la sessualità. Non possiamo sempre avere la certezza che mettendo in atto una serie di comportamenti sani eviteremo una o l’altra malattia, ma conosciamo i comportamenti che è consigliabile evitare per ridurre la possibilità che il corpo si ammali.

Possiamo dire lo stesso rispetto al suicidio? Non mi pare. E ciò perché questo gesto estremo è il frutto di un’azione della nostra psiche. Anche di lei, certamente, abbiamo cura. Attraverso la medicina, la psicoterapia e anche l’educazione. Ma aver cura della psiche non è paragonabile a ciò che avviene sul corpo. Difatti aver a che fare con la soggettività umana, la psiche, vuol dire approcciarsi a qualcosa che, nella maggior parte dei casi, non può essere prevedibile. Credo sia importante continuare a sensibilizzare la comunità su questo tema ed è nostro compito farlo a partire dalla riflessione sulle parole che usiamo. 

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