Endometriosi: “malattia al femminile” di cui si parla troppo poco. Oggi la giornata mondiale dedicata alla patologia

“Innanzitutto respira. Stai tranquilla. Tutto si mette in fila”. È questa la risposta che ci ha dato Annalisa Frassineti, presidentessa dellAssociazione Progetto Endometriosi (A.P.E.), quando le abbiamo chiesto quale fosse la prima cosa che dice a una ragazza o una donna che la contatta dopo aver ricevuto una diagnosi di endometriosi, una malattia cronica complessa di esclusivo interesse femminile.

Sono 150 milioni nel mondo le donne affette da endometriosi; 14 milioni in Europa e 3 milioni in Italia. Numeri tanto datati, dal momento che risalgono a un’Indagine conoscitiva sul fenomeno dell’endometriosi come malattia sociale del 2006 presentata alla Commissione igiene e sanità del Senato, quanto inattendibili, per via del ritardo diagnostico che lo stesso Ministero della Salute stima, di media, in sette anni. In occasione della Giornata mondiale dell’Endometriosi, che si celebra il 28 marzo (a partire dal 2014), proviamo a conoscere meglio questa patologia.

Che cos’è l’endometriosi?

L’Endometriosi è una malattia ormono-dipendente determinata dall’accumulo anomalo di cellule endometriali, ovvero del tessuto che riveste la parete interna dell’utero, fuori dall’utero stesso, più spesso in ovaie, tube, peritoneo, vagina ma talvolta anche intestino e vescica. Questa anomalia determina nel corpo un’infiammazione cronica dannosa, che si manifesta tramite forti dolori e sofferenze intestinali e si acuisce mensilmente sotto gli effetti del ciclo mestruale.

Sofferenza durante i rapporti sessuali, dolori lombari cronici e inspiegati, stitichezza alternata a diarrea, sciatalgia presente durante la fase mestruale, potrebbero essere tutti sintomi legati alla patologia endometriosica.

Per capirne di più, abbiamo fatto qualche domanda al dott. Giovanni Pontrelli specialista in Chirurgia Ginecologica e Direttore della Unità Operativa di Ostetricia e Ginecologia del Policlinico Abano Terme.

endometriosi
Il Dottor Giovanni Pontrelli

Dott. Pontrelli, che cosa rende così difficile la diagnosi di endometriosi? È un problema di mancanza di conoscenza da parte dei clinici oppure c’è altro?

«La diagnosi di endometriosi, in linea generale, non è difficile. Ciò che consente di diagnosticare l’endometriosi sono una buona anamnesi – conoscere i sintomi, la tipologia del dolore, quando compare, quanto dura, se è correlato al ciclo, ecc –, una buona visita ginecologica e una buona ecografia. In casi in cui, per esempio, sono presenti cisti ovariche, che ecograficamente hanno un aspetto tipico, la diagnosi può anche essere moto semplice e rapida. È chiaro però che l’endometriosi non è solo la cisti ovarica, ci sono pazienti che manifestano la patologia sotto forma di noduli sul peritoneo (ndr membrana che riveste gli organi della cavità addominale), che possono essere individuati durante la visita o tramite ecografica ma non è scontato. Sono questi i casi in cui l’esperienza del medico o dell’operatore gioca un ruolo fondamentale.

In generale, la causa principale nel ritardo diagnostico, non è tanto legata alla difficoltà nella diagnosi, ma al fatto che, soprattutto nelle ragazze giovani, il dolore mestruale è considerato un dolore “normale, che hanno avuto anche le nostre mamme e le nostre nonne!” e che prima o poi passerà. Inoltre, nonostante sia ben noto che l’endometriosi rappresenta la prima causa di dolore pelvico, spesso le pazienti, prima di arrivare dal ginecologo – e dallo specialista di dolore pelvico e di endometriosi in particolare – fanno un percorso che parte dal medico di famiglia e si muove tra diversi specialisti, spesso gastroenterologo, chirurgo generale e talvolta anche psicologo ed è proprio questa la causa non solo del ritardo diagnostico ma anche della sensazione frustrante di “non essere capite” che spesso le nostre pazienti provano».

Quanto incide, dunque, la preparazione specifica del ginecologo?

«Negli ultimi anni, grazie all’aumento delle pubblicazioni scientifiche e anche al lavoro delle associazioni, di endometriosi si parla sempre di più e noi ginecologici siamo diventati più preparati nella diagnosi anche precoce di questa malattia. A nostro supporto sono arrivati poi anche nuovi strumenti diagnostici, come ecografi di ultima generazione, sicuramente più performanti ed efficienti. Oggi, a differenza di qualche anno fa, è molto più immediato per un ginecologo porsi il dubbio che, in presenza di determinati sintomi, possa trattarsi di endometriosi. In ogni caso, viene da sé che i medici che si sono imbattuti più spesso nella patologia riescono a riconoscerla meglio, anche nelle sue manifestazioni più insolite e complesse, per via dell’occhio più allenato.

Quanto più precoce sarà la diagnosi tanto prima potrà iniziare una terapia individualizzata volta a migliorare le condizioni di vita della paziente ed a ridurre il rischio di un peggioramento clinico della malattia».

Il ritardo diagnostico fa sì che la patologia sia diagnosticata più spesso negli ultimi stadi (terzo e quarto) oppure i due aspetti non sono strettamente connessi?

«Non in tutti i casi l’endometriosi è una malattia che evolve rapidamente; ci sono casi in cui la malattia può rimanere stabile anche per molti anni. Più spesso però si tratta di una malattia evolutiva in cui il ritardo diagnostico, purtroppo, può portare a manifestazioni severe che vedono anche la compromissione di organi come intestino, vescica, uretere, reni, intestino, ecc, fino ad arrivare a richiedere una chirurgia molto demolitiva, simile a quella a cui si ricorre per i tumori. Se poi la paziente è una donna ancora giovane, e desidera una gravidanza, la sfida più grande sta nel trovare il giusto equilibrio tra “aggressività” chirurgica e strategie conservative, per consentire a queste donne di diventare madri».

Quali sono le soluzioni terapeutiche oggi a disposizione delle donne con endometriosi e quali le prospettive?

«Non esiste una terapia valida per tutte, per ogni donna vanno valutate moltissime caratteristiche: età, storia clinica, tipo di dolore, tipo di endometriosi, eventuale risposta alla terapia medica ed eventuale desiderio di gravidanza. Sulla base di queste, la terapia viene costruita su misura per ciascuna paziente. In linea generale, nelle ragazze giovani, in cui spesso il problema principale è il dolore, tutte le linee guida sono concordi nell’individuare la terapia farmacologica come primo tentativo di cura. Nei casi di mancata o insufficiente risposta sul dolore della terapia farmacologica o nei casi in cui la patologia si manifesta in maniera così severa da mettere a rischio la salute di alcuni organi, per esempio con ostruzioni intestinali o ostruzione degli ureteri causate da noduli di grandi dimensioni, la chirurgia è fortemente raccomandata. Soprattutto in questi casi la chirurgia può essere complessa e richiedere un approccio multidisciplinare (ginecologo, chirurgo generale, urologo…) e quindi andrebbe eseguita in centri con esperienza su questo tipo di patologia. 

Per le pazienti infertili e con endometriosi è necessario valutare caso per caso – sulla base dell’età, della durata della infertilità, delle manifestazioni della patologia, del pregresso clinico e chirurgico e della presenza di eventuali fattori maschili di infertilità– quale sia la strategia migliore da seguire, per capire se e per quanto tempo consigliare di cercare una eventuale gravidanza spontaneamente e, in caso di insuccesso, valutare se intervenire chirurgicamente per provare ad aumentare le possibilità di concepimento, oppure indirizzare la paziente verso un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA)».

La storia di Monica

Dei social network siamo spesso portati a vedere solo il lato negativo, ma quando si tratta di malattie – soprattutto se poco conosciute – è importante non sottovalutare l’importante ruolo di aggregatore che questi strumenti possono avere. Ne è un esempio perfetto Monica Papagna, giornalista e influencer, che ai suoi quasi 24mila follower si racconta nella sua quotidianità, compresa la convivenza con l’endometriosi, contribuendo in maniera importante a far sì che della malattia si parli, senza stigmi né tabù. Con lei abbiamo fatto due chiacchiere per raccogliere la sua esperienza.

«I primi ricordi dolorosi legati al ciclo – racconta Monica Papagna – risalgono a quando avevo 11 anni e, una domenica mattina, sono svenuta davanti alla chiesa in cui stavo preparando la Cresima. Da allora è sempre stato così: mi accorgevo di avere il ciclo nel momento in cui svenivo per il dolore improvviso e insopportabile. Con l’andare del tempo è andata un po’ meglio – prosegue – non tutte le volte perdevo i sensi e riuscivo anche a prevedere alcuni dei sintomi precedenti l’arrivo della mestruazione». Da quel primo episodio alla diagnosi corretta sono passati più di vent’anni

«Nonostante gli antidolorifici – spiega ancora l’influencer – uno o due giorni al mese io dovevo rimanere a casa, a letto, senza la capacità né la possibilità di alzarmi. Io ho scelto di fare la freelance, e oggi ne sono felice, ma al tempo sono stata praticamente obbligata dalla mia condizione e dalla difficoltà di trovare comprensione da parte di qualsiasi datore di lavoro, dovendo stare assente con una simile regolarità. Credo che, in generale, il problema lavorativo per le donne affette da endometriosi sia enorme, per l’incapacità da parte del mondo del lavoro di accogliere le esigenze specifiche di queste pazienti».

«Partendo dai medici dell’ASL della provincia di Milano, da cui provengo, – spiega Papagna – ho consultato almeno venti ginecologi diversi, negli anni, alla ricerca di una diagnosi. Anzi, di quella che a un certo punto è diventata la conferma di una diagnosi, che da sola ero riuscita a fare mettendo insieme sintomatologia e ricerca su Google».

“Tutte le donne stanno male per il ciclo”, “lei è perfettamente sana e ha solo una soglia del dolore particolarmente bassa”, “si tratta di un problema di natura mentale, dovrebbe rivolgersi a uno psicologo”. Sono queste alcune delle risposte che Monica, come molte altre donne nella sua stessa situazione, si è sentita dare nel suo lungo percorso diagnostico. Parole che l’hanno portata a sentirsi incompresa e sola, fino a mettere in dubbio se stessa e le sue sensazioni. 

«La svolta è arrivata circa 7 anni fa, – prosegue Papagna – nel momento in cui con mio marito abbiamo iniziato a cercare una gravidanza, che però non arrivava. Alcuni ginecologi dopo, finalmente la diagnosi: endometriosi al quarto stadio, su cui intervenire chirurgicamente con una certa urgenza». Tre interventi chirurgici dopo, oggi Monica è in attesa di un bimbo/a, e si racconta anche per far sentire meno sole tutte quelle ragazze e donne che, a causa di questa patologia tanto invalidante quanto invisibile, faticano a farsi prendere sul serio non solo dai medici ma anche da parenti e amici.

Come A.P.E. aiuta e supporta le donne

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Annalisa Frassineti, presidentessa di A.P.E.

«L’Associazione Progetto Endometriosi – ci racconta Annalisa Frassineti, presidentessa di A.P.E. – è un’associazione di volontariato (OPV) nata nel 2005 a Reggio Emilia, a partire dall’esigenza di donne affette da endometriosi di creare una realtà che rappresentasse loro e le tre milioni di pazienti che in Italia sono affette da questa patologia. A.P.E., infatti, cerca di andare a colmare tutte le lacune che ancora ci sono quando si parla di endometriosi: la mancata informazione, la carenza di medici specializzati, la scarsità di tutele e quanto altro di volta in volta emerge».

«L’attività su cui, al momento, investiamo più tempo – prosegue Frassineti – è quella di portare informazione nelle classi di terza, quarta e quinta superiore. Ci appoggiamo a ginecologi, psicologi e volontarie per andare nelle scuole a spiegare alle ragazze che cos’è l’endometriosi, aiutandole a riconoscersi nei sintomi, senza mai tralasciare l’aspetto psicologico, che come in tutte le malattie croniche è molto importante. Abbiamo anche un altro importante progetto già avviato: l’investimento di parte del 5×1000 viene destinato all’Associazione è reinvestito in formazione per ginecologi e psicoterapeuti, per i quali abbiamo costruito dei percorsi di specializzazione e approfondimento ad hoc. In questo modo le pazienti investono indirettamente il proprio 5×1000 nella formazione specializzata di figure che, un domani, potranno dedicarsi all’endometriosi con maggior consapevolezza, aiutandoci a ridurre il ritardo diagnostico che ancora oggi resta un problema enormemente sentito».

«Quando una donna, con neo diagnosticata endometriosi, si rivolge a noi – racconta ancora Frassinetti – è spesso spaesata, non di rado disorientata dalla grande quantità di medici a cui ha dovuto rivolgersi prima di ottenere quella stessa diagnosi. Per questo il nostro primissimo compito è quello di spiegare bene la malattia, quello che implica e l’importanza della terapia, oltre a indentificare il centro di riferimento specializzato più vicino alla paziente. Le nostre volontarie – conclude – svolgono un ruolo fondamentale: accompagnare e restare vicino lungo tutto il percorso».

Per approfondire attività e progetti dell’Associazione è possibile visitare il sito www.apendometriosi.it. A.P.E. ha la sua sede attuale a Parma ma, attraverso le proprie volontarie, arriva in molte regioni d’Italia.

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