Il rifiuto scolastico: un forte segnale di disagio nei giovani

Il rifiuto scolastico, ovvero la manifestazione emotiva caratterizzata dalla presenza di una forte resistenza o da una piena opposizione nell’andare a scuola, non ha niente a che vedere con la pigrizia o la mancanza di voglia di studiare.

L’ansia nei confronti della scuola, spesso accompagnata anche da un rifiuto del rapporto con i pari, con i genitori e perfino da un rifiuto nei confronti del cibo, è frutto di un forte dolore intimo, causato da ferite emotive molto profonde.

Il rifiuto scolastico è il campanello d’allarme di un malessere. È fondamentale coglierne i primi segnali per scongiurare l’instaurarsi di forme più “croniche” come la fobia scolare o la depressione.

Un concreto supporto ai genitori ed insegnanti di questi ragazzi più sensibili è offerto anche dalle cooperative sociali come il Centro Train de Vie Onlus che, sotto il coordinamento e la guida di Elena Nobile, responsabile dei Servizi Educativi Domiciliari, sostiene decine di ragazzi nel padovano.

Oggi, sulle nostre pagine, diamo spazio al secondo appuntamento (il primo lo puoi leggere QUI) di questa nostra rubrica sul disagio giovanile. Elena Nobile, con un suo nuovo racconto romanzato, ci porta a conoscere Alessia: una ragazza di quattordici anni che sta vivendo un periodo di rifiuto scolastico e forte disagio personale.

Matteo Ercolin


Una piovosa mattina di dicembre, ricevo una telefonata dall’ospedale. Una collega mi stava contattando perché voleva chiedermi la possibilità di attivare un servizio educativo domiciliare per Alessia. A breve, dopo un ricovero di più di un mese, sarebbe stata dimessa e, almeno per il primo periodo ci sarebbe stato bisogno di un educatore a casa.

La collega mi racconta che, nonostante la giovane età, Alessia ha solamente 14 anni, ha tante ferite. Ferite che fanno emergere alla luce per un forte male interno. Ha un rifiuto verso la realtà che vive: rifiuta il cibo, il rapporto con i genitori e anche le relazioni con i pari tendono ad essere negate. O meglio: sono fatte di chat, tanto che durante il lock down, l’unica realtà da lei esperita, è stata quella virtuale. Sempre che sia corretto definirla realtà!

La situazione che mi viene presentata mi preoccupa molto, ma allo stesso tempo mi stimola. Molto del percorso che si potrà svolgere con Alessia dipenderà proprio dalla relazione reale che si creerà tra la ragazza e l’educatrice!

Nel giro di qualche giorno accolgo Alessia in cooperativa. Si presenta una ragazza con dei bei boccoli neri che coprono metà del suo viso e degli occhioni grandi, scuri e impauriti che forse vorrebbero raccogliere tutto ciò che vedono e farlo sparire sotto le palpebre.

Alessia parla poco, ha una voce fina e tremula. Le presento Eleonora: “Lei è Eleonora e sarà la tua educatrice. Sai chi è un’educatrice?” Alessia risponde “Credo una persona che mi aiuterà a fare i compiti?!”. “Certo!” le rispondo subito valorizzando la sua risposta “ti aiuterà nei compiti, quando deciderai di tornare a scuola. Ma con Eleonora potete anche fare altro: giri in bici, leggere qualcosa insieme, guardare un film….quello che volete”. “Ah…” mi risponde un po’ perplessa. Come a dire “ma perché deve venire una sconosciuta a casa per fare cose che posso benissimo fare da sola?”

Questo almeno mi sembra di cogliere nei suoi occhi. Allora mi appresto a spiegare “Eleonora ti accompagnerà a vivere esperienze che in questo ultimo periodo non stai facendo molto. Non sarà sempre facile e quindi lei sarà un po’ il tuo “bastone umano”, nel senso che ti potrai appoggiare a lei, potrai chiedere aiuto, ma potrai anche gioire con lei per le piccole cose. So che non è semplice da capire ora, ma possiamo provare a darci tempo e a vivere quest’esperienza?” Sempre con un filo di voce, Alessia mi risponde “Va bene”. Alessia ed Eleonora si accordano per vedersi il lunedì successivo e poi ci salutiamo.

Come facciamo con tutti ragazzi che seguiamo, chiedo ad Eleonora di aggiornarmi sull’andamento del percorso con Alessia attraverso una relazione scritta. L’altro giorno, son passate circa 3 settimane, mi arriva quanto segue.

Vado per la prima volta verso casa di Alessia. Penso a tante cose da fare, tante cose da proporre, ho tanti dubbi: e se starà male? E se non se la sentirà di vedermi? Mi accoglierà? Comincia la prima settimana insieme. Io e Alessia ci vediamo tutti i giorni e ogni giorno sempre più lei mi fa entrare nel suo mondo ricco di creatività, di arte e creazioni.

Al, così si fa chiamare perché non le piace essere definita secondo un genere, ama disegnare, ha una forte passione per i libri e le serie tv americane e sogna di andare a vivere a New York. Passiamo insieme del bel tempo tra disegni, canzoni, scrittura e racconti. Cominciamo anche a lavorare sulla scuola. Al non frequenta da qualche mese e non ha contatti con i compagni se non con due ragazze con cui coltiva un’amicizia fuori dalla scuola. Costruiamo, insieme ai professori, un piano orario che possa incontrare le preferenze di Al: seguirà le lezioni in didattica a distanza, collegandosi con la classe, senza video. “Non mi piace che gli altri mi vedano, ho paura che proiettino la mia faccia in aula” mi dice.

Io la tranquillizzo rispondendo che mi assicurerò che questo non accadrà. So che la sua paura nell’esporsi deriva da dei vissuti precedenti che hanno segnato il suo modo di relazionarsi con i pari. So che Al è molto sensibile, è un piccolo fiore nato in un sottile ramo, in solitaria, che fatica ad aprirsi e ha bisogno di essere protetto dalle intemperie. Inizialmente ci colleghiamo insieme alle lezioni, lei fa dei tentativi per interagire in classe e io sono fiera di lei, ma ha una voce sottile, nessuno la sente e lei si chiude. Un giorno proviamo insieme a svolgere il primo compito: scrivi un testo descrivendo un fatto divertente che è capitato a te o a un tuo conoscente. Al mi guarda e mi dice: “Ma io non ho nulla di divertente da raccontare, ho solo cose tristi, la musica che ascolto è triste, le frasi che scrivo sono tristi!”.

Propongo allora di provare a inventare una storia. Al si blocca, si fa piccola, guarda in basso con un viso spento e non parla più. Temo di aver insistito troppo, forse ancora non era pronta per riprendere con la scuola e i compiti. Rimaniamo in silenzio finché le chiedo: “C’è qualcosa che non va? Parlami, aiutami a capire”. Nessuna risposta. Riprovo: “Al non ti va di fare il compito o non ti viene in mente nulla?”. Al alza lo sguardo e risponde quasi mortificata: “Non so cosa raccontare”. Le chiedo di immaginare un personaggio adatto ma non trova nulla. Le propongo allora di giocare con i dadi cantastorie, Al rimane scettica, ma mi segue.

Lanciamo i dadi e comincia a inventare tantissime storie e tutta la creatività che ha dentro riprende a fiorire, il suo viso si illumina. Le propongo di usare alcuni elementi per creare una storia adatta al compito. Insieme riusciamo a scrivere, lei mi detta le parti seguendo la sua fantasia che galoppa e io la seguo e allo stesso tempo la guido, sono il suo bastone. Inviamo l’elaborato alla professoressa che commenta in modo molto positivo. Io sono felicissima che Al riceva dei feedback positivi che rafforzino il nostro lavoro insieme. Iniziamo così a lavorare su più materie, anche su alcune “materie no” che con impegno Al prova a seguire.

Purtroppo però il covid ci allontana, entriamo in zona rossa e cominciamo a fare delle videochiamate. La prima videochiamata va bene, anche se a distanza riusciamo a fare un’attività e ci vediamo per la prima volta senza mascherina. Finalmente dal suo viso vedo l’accenno a dei sorrisi e questo mi trasmette tanta forza. Mi invade una sensazione positiva e sento che anche a distanza posso essere il suo bastone e posso sostenerla. Il giorno successivo Al non vuole accendere la videocamera. Lavoriamo comunque, facciamo un po’ di scuola e cerco di convincerla nel collegarsi alla lezione ma Al non è felice di questo, non si sente a suo agio “non mi va di seguire quella lezione” mi dice trascinando le sue parole in un lamento piagnucolante.

Io insisto, vorrei che esperisse nuove relazioni che possano aiutarla ad avere fiducia negli altri. Ma Al non si sente ancora pronta, l’ho spinta troppo e le ferite tornano ad emergere. Nei giorni seguenti provo a contattarla per sentirci ma risponde “non mi va, scusami”.  Ogni giorno penso a qualcosa da scriverle o da inviarle per creare un momento di condivisione: poesie in inglese, paesaggi in fiore, consigli su qualcosa da guardare. Al mi risponde sempre ma senza tanto coinvolgimento. Mi confronto con la famiglia: delle volte mi riportano dei giorni molto difficili per Al, altri in cui riesce a uscire e svolgere attività.

Arrivato il momento di potersi rincontrare Al non è d’accordo. Non vorrebbe che io tornassi da lei. La madre mi riporta che sentendo il mio nome storce il naso. Mentre mi dirigo verso la sua casa rifletto sul fatto che probabilmente dovremo recuperare la relazione dall’inizio e riprendere a conoscerci. Come i primi giorni in cui eravamo una scoperta l’una per l’altra. Con mio grande stupore invece Al mi attende in salotto, rivedo i suoi grandi occhi accesi, non impauriti ma accoglienti. “Ciao! Scusa vado a prendere la mascherina” mi dice sorridente.

Come se non ci fosse stato il periodo di lontananza ci raccontiamo e ci ascoltiamo. Passiamo del tempo fuori casa. Sento come si è trasformata la nostra relazione, partendo dalla mia figura di bastone che sorregge, insieme abbiamo creato un ponte che ci unisce. La mattinata insieme vola e Al mi dice “Se vuoi puoi rimanere anche oltre le ore di servizio, per passare il tempo insieme!!”. Rimango con lei, perché ha ragione, è bello passare il tempo insieme. 

Sulla via di casa rifletto sulle sue parole. Penso ai giorni in cui non le andava di sentirmi e mi rispondeva in maniera distaccata. In quelle giornate, per lei difficili, ciò che voleva comunicarmi non era una richiesta di allontanarmi da lei ma voleva che ci fosse di più, voleva complicità, sguardi, silenzi che non devono essere necessariamente riempiti. Voleva che io non fossi solo “qualcuno che l’aiuta nei compiti”. Voleva il nostro esserci, insieme, nella relazione.

Elena, un educatrice di Centro Train de Vie

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