Una forma neoplastica che colpisce 5.200 donne ogni anno. Parliamo del tumore alle ovaie o cancro dell’ovaio. Questi sono i numeri del rapporto “I Numeri del Cancro in Italia, 2020” a cura, dell’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) e dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM). La percentuale di sopravvivenza, a cinque anni dalla diagnosi, si aggira intorno al 40%. Il motivo è che spesso, la malattia viene individuata quando si trova in uno stato già avanzato di sviluppo.
Una speranza però arriva dall’Istituto Europeo di Oncologia a Milano, in cui un gruppo di ricercatori, in collaborazione con ricercatori della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, ha identificato una successione di mutazioni molecolari che sembrano causare la progressione del carcinoma ovarico più diffuso e più aggressivo. I dati biologici ottenuti, dal forte potenziale terapeutico, sono stati di recente pubblicati sul International Journal of Cancer. Lo studio sostenuto da Fondazione AIRC è stato coordinato da Ugo Cavallaro, Direttore dell’Unità di Ricerca in Ginecologia Oncologica dello IEO.
Che cos’è il tumore alle ovaie?
Il tumore alle ovaie è ancora difficile da curare e il carcinoma ovarico sieroso di alto grado è la forma più diffusa (70% di casi) e più aggressiva. Le terapie attualmente disponibili hanno efficacia purtroppo limitata per un motivo clinico e uno biologico. Infatti, da un punto di vista clinico, nell’80% circa dei casi il tumore è diagnosticato in fase avanzata, essendo all’esordio del tutto asintomatico. Da un punto di vista biologico invece, l’alto livello di eterogeneità cellulare ha finora reso difficile caratterizzare i cambiamenti molecolari che ne promuovono la progressione.
All’origine di queste tipologie di neoplasie vi è la crescita incontrollata di cellule nell’ovaio. La maggior parte dei casi si tratta di cellule epiteliali (non quelle che producono gli ovuli), ma può capitare che la proliferazione coinvolga altre due tipologie di cellule, le germinali e le stromali.
I fattori di rischio del tumore alle ovaie
Chi è più a rischio sono le donne tra i 50 e i 69 anni. Altri fattori che possono aumentare il rischio di tumore delle ovaie sono: l’obesità e la durata del periodo ovulatorio, cioè una mestruazione precoce o una menopausa tardiva.
Anche il non avere figli può influire in questo casi, infatti, chi ha più figli, allatta o ha allattato al seno e ha utilizzato a lungo termine contraccettivi estroprogestinici è più protetto contro questa forma di neoplasia.
Infine alcune mutazioni genetiche possono favorire l’insorgenza di questo tumore. Parliamo delle mutazioni ereditarie nei geni BRCA1 e BRCA2. Per la mutazione BRCA1 il rischio aumenta del 15/45% mentre nella BRCA2 aumenta del 10/20%.
I sintomi del tumore alle ovaie
Come abbiamo accennato prima, il tumore alle ovaie spesso viene diagnosticato in fase avanzata perché agli inizi del suo sviluppo non presenta sintomi. Tuttavia nel corso del suo sviluppo vi possono essere alcuni campanelli d’allarme a cui le donne possono fare attenzione come: l’addome gonfio, meteorismo e poliuria (frequente necessità di urinare), dolore pelvico o addominale, sanguinamento vaginale, stipsi e/o diarrea e una sensazione di estrema stanchezza.
Nelle fasi più avanzate, il tumore alle ovaie può inoltre causare nausea, perdita di appetito o senso di pienezza anche se si ha mangiato poco. Dobbiamo ricordare però, che questi sintomi spesso sono associati ad altre patologie che nulla hanno a che fare con questa neoplasia. Bisogna fare attenzione se questi sintomi si presentano tutti assieme all’improvviso.
Gli sforzi della ricerca internazionale si sono finora concentrati sul sequenziamento del genoma sia del tumore primario che delle metastasi, per metterli a confronto e individuare le alterazioni molecolari che determinano la diffusione della malattia, causa della sua letalità. I risultati sono stati solo parziali.
Un approccio innovativo nella cura del tumore alle ovaie
«Per individuare la “traiettoria” del cancro ovarico noi abbiamo pensato a un approccio innovativo – spiega Cavallaro – Dal tumore ovarico di una singola paziente abbiamo generato una serie di modelli sperimentali di tumore che ricapitolano ognuno un passaggio diverso della progressione della malattia. Abbiamo così ottenuto il profilo genomico (del DNA) e trascrittomico (del RNA) dei vari modelli, in modo da ricavarne delle “firme” molecolari, vale a dire degli insiemi di mutazioni o di geni specificamente associati ai diversi modelli. Utilizzando questa chiave abbiamo quindi interrogato i database mondiali che contengono i dati genetici di coorti numerose di pazienti con tumore ovarico».
«Confrontando i nostri modelli con i dati contenuti in tali database, abbiamo scoperto che le firme molecolari individuate hanno potere prognostico, ovvero danno indicazioni sul processo biologico di evoluzione della malattia. Non solo, ma sembrano avere anche capacità predittiva, ossia possono dare indicazioni sull’efficacia dei trattamenti. In altre parole, le firme molecolari ottenute tramite modelli sperimentali diversi ma derivanti da un unico tumore (e quindi un’unica paziente) hanno fornito informazioni cliniche estendibili anche ad altre pazienti, che includono la prognosi e la predizione della risposta alla chemioterapia. Abbiamo inoltre ottenuto dati molto interessanti, almeno potenzialmente, dal punto di vista terapeutico, scoprendo un punto vulnerabile del carcinoma ovarico».
Un nuovo bersaglio della terapia contro il tumore alle ovaie
«Abbiamo dimostrato – continua Fabrizio Bianchi della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza – che la proteina PI3K ha un ruolo essenziale nel mantenere in vita le cellule staminali tumorali del carcinoma ovarico, le cellule da cui il tumore nasce e si rigenera. PI3K potrebbe dunque essere un nuovo possibile bersaglio terapeutico per l’eliminazione di questo sottogruppo di cellule così importante nella recidiva e nella chemioresistenza della malattia».
«Il ruolo di PI3K come promotore del cancro ovarico è noto da tempo e la sua possibile inattivazione è stata ampiamente esplorata come strategia terapeutica. Il nostro studio ha esteso le precedenti osservazioni sul legame tra PI3K e neoplasia ovarica, svelando il ruolo di una mutazione recentemente scoperta nel gene PIK3R1, che sappiamo essere il regolatore di PI3K. La mutazione in questo gene provoca un’attivazione anomala di PI3K, che fa da scudo alle cellule staminali tumorali, rendendole immortali. Si può pertanto immaginare che l’inibizione di PI3K possa superare la chemioresistenza, un’ipotesi che merita ulteriori indagini per le sue potenziali implicazioni per la gestione clinica delle pazienti con carcinoma ovarico».
Terapie farmaceutiche mirate per il tumore alle ovaie
Cavallaro conclude: «In sintesi abbiamo delineato un flusso di lavoro che, attraverso l’analisi del DNA e RNA, ha ottenuto modelli di alterazioni molecolari importanti per il trattamento del carcinoma ovarico, come esemplificato dalla mutazione PIK3R1 e dalla conseguente modificata regolazione di PI3K. Le alterazioni così identificate con il nostro approccio potrebbero diventare bersagli di farmaci mirati, per offrire nuove opzioni terapeutiche anche per questo tumore femminile così temibile e insidioso».
Lo studio, che ha visto la collaborazione di altri ricercatori dello IEO guidati da Giuseppe Testa e dell’Istituto Mario Negri guidati da Raffaella Giavazzi, è stato condotto con il sostegno, oltre che di Fondazione AIRC, del Ministero della Salute e della Fondazione IEO-Monzino.